Quando il cuore lavora poco e male a risentirne è tutto l’organismo. E’ questo il caso di chi è colpito da scompenso cardiaco, un disturbo che in Italia rappresenta la prima causa di ricovero (eccetto il parto) in ospedale. Nel corso degli anni, grazie all’utilizzo dei farmaci beta-bloccanti, di passi avanti ne sono stati fatti molti. Queste molecole però nulla possono nel consentire al cuore di recuperare la sua forza.
Ora, dopo anni di ricerca, la cura allo scompenso cardiaco sta cambiando radicalmente. Grazie a due molecole da poco in commercio anche in Italia oggi è possibile non solo bloccare gli effetti dello scompenso ma anche potenziare gli effetti positivi che il corpo mette in atto per riparare i danni. Un vantaggio in più che sta consentendo ai cardiologi di ridurre di oltre il 20% le morti associate a questo problema cardiaco. E’ questo il principale messaggio che emerge dalle «Giornate Europee dello scompenso cardiaco» in corso in questi giorni.
Che cos’è lo scompenso cardiaco?
Per scompenso cardiaco si intende una condizione nella quale il cuore non è capace di distribuire il sangue in misura adeguata alle richieste metaboliche dei tessuti. Le cause più comuni di questa patologia sono la malattia delle arterie coronarie (cardiopatia ischemica) e l’ipertensione arteriosa, ma vanno ricordate anche le alterazioni delle valvole cardiache, la cardiomiopatia dilatativa e le miocarditi.
Lo scompenso cardiaco si manifesta con una serie di sintomi, quali la comparsa di edema ai piedi e alle gambe, profondo senso di stanchezza e mancanza di energia, dispnea prima da sforzi importanti e perdita di appetito. Nelle forme più gravi può comparire anche l’edema polmonare, che si manifesta con una grave fame d’aria. A differenza di quanto si possa pensare la mortalità per questa malattia è più alta di quella del cancro. Solo il tumore del pancreas e del polmone lo sono di più.
Come si cura?
Ad oggi la terapia maggiormente utilizzata per la cura dello scompenso prevede l’utilizzo dei beta-bloccanti, farmaci che nel corso degli anni hanno cambiato la storia del trattamento della malattia. «Nell’approccio diagnostico terapeutico al paziente con scompenso cardiaco -afferma Claudio Rapezzi, professore presso all’Università di Bologna e direttore dell’U.O. di Cardiologia, Policlinico Sant’Orsola Malpighi- è necessario fare una diagnosi precisa e, se possibile, individuare e rimuovere la causa dello scompenso. Il paziente deve seguire una dieta alimentare corretta e attenersi alla terapia che gli viene prescritta».
Due terapie in una
Ma se fino ad oggi si è sempre cercato di tamponare il danno, ora i cardiologi hanno a disposizione un’arma in più per tentare di «riparare» in maniera vera e propria il cuore. Questo perché il cuore di una persona colpita da scompenso perde progressivamente efficienza e non torna più come prima.
Ora, almeno in un terzo dei pazienti affetti da scompenso cronico, la situazione può essere capovolta. Il merito è dell’associazione delle molecole sacubitril e valsartan (già ora rimborsate da parte del sistema sanitario): «Siamo di fronte a un cambiamento radicale del nostro approccio al paziente con scompenso cardiaco -afferma Michele Senni, Direttore della Cardiologia 1 dell’Ospedale ‘Papa Giovanni XXIII’ di Bergamo -con il passaggio da un’inibizione a una modulazione neuro-ormonale». Il merito di questa nuova associazione è da un lato di agire sulle cause della malattia (cosa che già si faceva in passato), dall’altro dall’altro di potenziare i sistemi neuro-ormonali capaci di proteggere il cuore.
Ridurre la mortalità di oltre il 20%
Una strategia di successo, come dimostrano i risultati di uno dei più grandi studi clinici mai condotti fino ad ora nello scompenso cardiaco, che ha coinvolto
più di 8 mila pazienti nel mondo. «In questo trial – conclude Senni, coordinatore per lo studio in Italia – sacubitril/ valsartan sono state confrontate con enalapril, l’ACE-inibitore che rappresenta lo standard di terapia nello scompenso cardiaco. I risultati ottenuti rispetto a enalapril sono stati molto positivi sia in termini di riduzione della mortalità cardiovascolare del 20%, che dell’ospedalizzazione per scompenso cardiaco, ridotta del 21%, ma anche per la riduzione del 16% della mortalità per tutte le cause».
Risultati questi che nella pratica clinica si traducono non solo in un allungamento dell’aspettativa di vita ma anche in un miglioramento della sua qualità: la fame d’aria e la grave stanchezza tipiche dello scompenso, infatti, si riducono sensibilmente e il paziente può tornare gradualmente ad una vita più attiva.
@danielebanfi83
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