L’importanza di lavarsi le mani viene oggi ribadita più che mai per evitare il contagio da Coronavirus. Si tratta solo di intensificare un’abitudine che diamo per scontata e acquisita fin da quando eravamo piccoli. Tuttavia, ci fu un’epoca in cui tale banale operazione veniva del tutto trascurata, persino in ambito medico, con conseguenze devastanti. Fu lo sfortunato dottor Ignaz Semmelweis a porvi rimedio, un uomo al quale solo post mortem il mondo si è deciso a tributare il giusto merito.
Ungherese di nascita, era nato a Buda (prima che fosse unita alla città di Pest) nel 1818. Quintogenito di un ricco droghiere, studiò con profitto al Ginnasio cattolico e successivamente, dopo una breve parentesi di studi in legge, scoprì che la sua vocazione era la medicina.
Appassionato di Anatomia patologica, le vie professionali lo indirizzarono verso l’Ostetricia e proprio questo doppio interesse medico lo condurrà a una delle scoperte più importanti della storia sanitaria mentre era assistente presso il reparto ostetrico dell’Ospedale generale di Vienna.
All’epoca, infatti, una delle patologie più crudeli era la cosiddetta «febbre puerperale» che falcidiava le neomamme. Essendo provocata da una grave infezione dell'utero successiva a un parto o a un aborto. Questa era dovuta a una contaminazione da batteri, in particolare da Escherichia coli, da streptococchi o da altri germi anaerobi che possono infettare l'endometrio, lo strato più interno dell'utero, nelle zone in cui per vari motivi questo ha subito delle lesioni.
Eppure, molto prima dell’800, alcuni scienziati avevano avuto delle straordinarie intuizioni. Tra questi, il gesuita Athanasius Kircher che già nel 1658 ipotizzò come «piccoli animali viventi, invisibili a occhio nudo» diffondessero le malattie. Tale teoria era già stata messa nero su bianco nel 1546 da Girolamo Fracastoro nel suo libro «De contagione».
Il busillis perdurò ben oltre la fine del Secolo dei Lumi: nel 1795 il medico scozzese Alexander Gordon aveva intuito la presenza di un qualche vettore che trasferisse la malattia da una donna all’altra. Si limitò tuttavia a rilevare che «ogni persona che sia stata con una paziente affetta da puerperale si carica di atmosfera infetta, che viene comunicata a ogni donna incinta che capita nella sua sfera». Tuttavia, le sue teorie furono dimenticate almeno fino al 1843, quando il patologo americano Oliver Wendell Holmes pubblicò un saggio in cui sosteneva che l'origine della febbre puerperale si dovesse ascrivere al contatto fra le donne e gli stessi medici o infermieri. Fu così che fornì una serie di prescrizioni per evitare che il personale sanitario venisse a contatto con le puerpere dopo aver visitato una malata oppure dopo aver dissezionato cadaveri.
Fu proprio un’autopsia a fornire al dottor Semmelweis l’illuminazione: un suo collega, un uomo giovane e robusto, morì per essersi accidentalmente ferito durante la dissezione del cadavere di una donna morta per febbre puerperale.
Comprese così che il morbo veniva diffuso dagli stessi medici che, dopo aver compiuto dissezioni su cadaveri, visitavano le donne con mani e strumenti non lavati: «Sono le dita degli studenti, contaminatesi nel corso di recenti dissezioni, che portano le fatali particelle cadaveriche negli organi genitali della donna incinta».
Aveva infatti notato un dato evidente presso i due padiglioni di ostetricia dell’Ospedale di Vienna. Nel primo, dove operavano medici e studenti, spesso reduci da autopsie, la mortalità delle puerpere era circa dell’11%. Nel secondo vi lavoravano solo le levatrici - che non venivano a contatto con cadaveri - e la mortalità scendeva all’1% dei parti.
Semmelweis ordinò così inflessibilmente agli studenti di iniziare a lavarsi le mani con una soluzione a base di cloruro di calce prima di visitare le pazienti e di far cambiare le lenzuola alle donne che avevano partorito. I decessi subirono immediatamente un drastico calo.
Un’avvertenza per noi assolutamente banale, ma all’epoca si trattava di una rivoluzione. Il giovane assistente ungherese non aveva un carattere facile e fu molto poco abile nel propagandare le sue intuizioni. Gli altri medici lo presero subito in astio, anche perché ritenevano la raccomandazione di lavarsi le mani un’accusa alla loro igiene personale. Peraltro, la scoperta in sé avrebbe comportato il farsi carico dell’enorme responsabilità morale di tutte le donne che fino ad allora erano state inconsapevolmente contagiate dagli stessi medici e studenti.
Ad aggravare la situazione, il fatto che Semmelweis era un nazionalista e nel 1848 aveva preso parte ai moti indipendentisti ungheresi: per questo motivo venne allontanato dall’ospedale asburgico.
Tornò in Ungheria dove, all’ospedale di Pest, ottenne altri eccellenti risultati. Fu nella propria terra natale che scrisse la sua opera chiave, Eziologia, concetto e profilassi della febbre puerperale, del 1861.
Tuttavia, anche qui incontrò la fiera opposizione della comunità scientifica, (un po’ come avvenne per il nostro Vincenzo Tiberio, scopritore dei poteri antibiotici delle muffe, 30 anni prima di Fleming e della penicillina).
Possiamo solo immaginare la disperazione di quest’uomo che aveva compreso quante povere donne si sarebbero potute salvare semplicemente seguendo le sue semplici raccomandazioni igieniche.
«Le mie dottrine esistono per liberare i reparti di maternità dal loro orrore, per preservare la moglie per suo marito e la madre per suo figlio». E nessuno gli dava ascolto.
Fu così che la sua salute mentale ne ebbe a soffrire tanto che, nel 1865, dopo un collasso nervoso, venne internato in manicomio. Percosso dagli infermieri, fu sottoposto a un’operazione chirurgica, ma per una tragica ironia della sorte, morì per setticemia.
Saranno poi altri grandi nomi della medicina, come Pasteur nel 1879 e Lister nel 1883, a codificare in modo definitivo la teoria della trasmissione infettiva delle malattie. Nel 1894, Budapest gli eresse un monumento, una ricca tomba e gli intitolò la clinica ostetrica universitaria.
Durissime, tuttavia, risuonano ancor oggi le parole dell’amico e collega di Semmelweis, Ferdinand von Hebra: «Quando qualcuno scriverà la storia degli errori umani ne troverà pochi più gravi di quello commesso dalla scienza nei confronti di Semmelweis».
L’importanza di lavarsi le mani viene oggi ribadita più che mai per evitare il contagio da Coronavirus. Si tratta solo di intensificare un’abitudine che diamo per scontata e acquisita fin da quando eravamo piccoli. Tuttavia, ci fu un’epoca in cui tale banale operazione veniva del tutto trascurata, persino in ambito medico, con conseguenze devastanti. Fu lo sfortunato dottor Ignaz Semmelweis a porvi rimedio, un uomo al quale solo post mortem il mondo si è deciso a tributare il giusto merito.
Ungherese di nascita, era nato a Buda (prima che fosse unita alla città di Pest) nel 1818. Quintogenito di un ricco droghiere, studiò con profitto al Ginnasio cattolico e successivamente, dopo una breve parentesi di studi in legge, scoprì che la sua vocazione era la medicina.
Appassionato di Anatomia patologica, le vie professionali lo indirizzarono verso l’Ostetricia e proprio questo doppio interesse medico lo condurrà a una delle scoperte più importanti della storia sanitaria mentre era assistente presso il reparto ostetrico dell’Ospedale generale di Vienna.
All’epoca, infatti, una delle patologie più crudeli era la cosiddetta «febbre puerperale» che falcidiava le neomamme. Essendo provocata da una grave infezione dell'utero successiva a un parto o a un aborto. Questa era dovuta a una contaminazione da batteri, in particolare da Escherichia coli, da streptococchi o da altri germi anaerobi che possono infettare l'endometrio, lo strato più interno dell'utero, nelle zone in cui per vari motivi questo ha subito delle lesioni.
Eppure, molto prima dell’800, alcuni scienziati avevano avuto delle straordinarie intuizioni. Tra questi, il gesuita Athanasius Kircher che già nel 1658 ipotizzò come «piccoli animali viventi, invisibili a occhio nudo» diffondessero le malattie. Tale teoria era già stata messa nero su bianco nel 1546 da Girolamo Fracastoro nel suo libro «De contagione».
Il busillis perdurò ben oltre la fine del Secolo dei Lumi: nel 1795 il medico scozzese Alexander Gordon aveva intuito la presenza di un qualche vettore che trasferisse la malattia da una donna all’altra. Si limitò tuttavia a rilevare che «ogni persona che sia stata con una paziente affetta da puerperale si carica di atmosfera infetta, che viene comunicata a ogni donna incinta che capita nella sua sfera». Tuttavia, le sue teorie furono dimenticate almeno fino al 1843, quando il patologo americano Oliver Wendell Holmes pubblicò un saggio in cui sosteneva che l'origine della febbre puerperale si dovesse ascrivere al contatto fra le donne e gli stessi medici o infermieri. Fu così che fornì una serie di prescrizioni per evitare che il personale sanitario venisse a contatto con le puerpere dopo aver visitato una malata oppure dopo aver dissezionato cadaveri.
Fu proprio un’autopsia a fornire al dottor Semmelweis l’illuminazione: un suo collega, un uomo giovane e robusto, morì per essersi accidentalmente ferito durante la dissezione del cadavere di una donna morta per febbre puerperale.
Comprese così che il morbo veniva diffuso dagli stessi medici che, dopo aver compiuto dissezioni su cadaveri, visitavano le donne con mani e strumenti non lavati: «Sono le dita degli studenti, contaminatesi nel corso di recenti dissezioni, che portano le fatali particelle cadaveriche negli organi genitali della donna incinta».
Aveva infatti notato un dato evidente presso i due padiglioni di ostetricia dell’Ospedale di Vienna. Nel primo, dove operavano medici e studenti, spesso reduci da autopsie, la mortalità delle puerpere era circa dell’11%. Nel secondo vi lavoravano solo le levatrici - che non venivano a contatto con cadaveri - e la mortalità scendeva all’1% dei parti.
Semmelweis ordinò così inflessibilmente agli studenti di iniziare a lavarsi le mani con una soluzione a base di cloruro di calce prima di visitare le pazienti e di far cambiare le lenzuola alle donne che avevano partorito. I decessi subirono immediatamente un drastico calo.
Un’avvertenza per noi assolutamente banale, ma all’epoca si trattava di una rivoluzione. Il giovane assistente ungherese non aveva un carattere facile e fu molto poco abile nel propagandare le sue intuizioni. Gli altri medici lo presero subito in astio, anche perché ritenevano la raccomandazione di lavarsi le mani un’accusa alla loro igiene personale. Peraltro, la scoperta in sé avrebbe comportato il farsi carico dell’enorme responsabilità morale di tutte le donne che fino ad allora erano state inconsapevolmente contagiate dagli stessi medici e studenti.
Ad aggravare la situazione, il fatto che Semmelweis era un nazionalista e nel 1848 aveva preso parte ai moti indipendentisti ungheresi: per questo motivo venne allontanato dall’ospedale asburgico.
Tornò in Ungheria dove, all’ospedale di Pest, ottenne altri eccellenti risultati. Fu nella propria terra natale che scrisse la sua opera chiave, Eziologia, concetto e profilassi della febbre puerperale, del 1861.
Tuttavia, anche qui incontrò la fiera opposizione della comunità scientifica, (un po’ come avvenne per il nostro Vincenzo Tiberio, scopritore dei poteri antibiotici delle muffe, 30 anni prima di Fleming e della penicillina).
Possiamo solo immaginare la disperazione di quest’uomo che aveva compreso quante povere donne si sarebbero potute salvare semplicemente seguendo le sue semplici raccomandazioni igieniche.
«Le mie dottrine esistono per liberare i reparti di maternità dal loro orrore, per preservare la moglie per suo marito e la madre per suo figlio». E nessuno gli dava ascolto.
Fu così che la sua salute mentale ne ebbe a soffrire tanto che, nel 1865, dopo un collasso nervoso, venne internato in manicomio. Percosso dagli infermieri, fu sottoposto a un’operazione chirurgica, ma per una tragica ironia della sorte, morì per setticemia.
Saranno poi altri grandi nomi della medicina, come Pasteur nel 1879 e Lister nel 1883, a codificare in modo definitivo la teoria della trasmissione infettiva delle malattie. Nel 1894, Budapest gli eresse un monumento, una ricca tomba e gli intitolò la clinica ostetrica universitaria.
Durissime, tuttavia, risuonano ancor oggi le parole dell’amico e collega di Semmelweis, Ferdinand von Hebra: «Quando qualcuno scriverà la storia degli errori umani ne troverà pochi più gravi di quello commesso dalla scienza nei confronti di Semmelweis».