Precisarlo è doveroso: un calo simile (-4,3 per cento annuo, dal 2006 al 2016) dei nuovi casi di tubercolosi non era mai stato registrato. Ma guai ad accontentarsi. Anche perché, di questo passo, l’obiettivo di porre fine all’epidemia entro il 2030 non potrà essere raggiunto: per ambire a ciò, servirebbe una flessione di portata più che doppia (meno dieci per cento).

Parte da qui l’istantanea scattata in occasione della giornata mondiale dedicata alla malattia e celebrata lo scorso 24 marzo. A scattarla il Centro Europeo per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie (Ecdc), secondo cui nel 2016, soltanto nell’Unione Europea, sono stati segnalati 58994 casi di malattia. Ancora troppi per ipotizzare di ridurre sensibilmente i casi da qui a 12 anni e di vedere scomparire la tubercolosi entro il 2050.

LA FRENATA È ANCORA TROPPO LENTA

Anche perché, in un quadro di per sé già poco rassicurante, l’aggiornamento dei numeri della malattia riportati nel rapporto europeo è ancora lontano dall’essere ottimale. Sul totale dei casi, per esempio, deficitaria rimane la segnalazione dei casi di co-infezione: tubercolosi e Hiv. Idem dicasi per le diagnosi all’interno delle carceri, bacino di diffusione delle malattie infettive.

I dati sui detenuti in Italia - sulla base delle positività al test della tubercolina - indicano un rischio superiore per chi ha avuto precedenti detenzioni, per gli stranieri e per i detenuti con più di quarant’anni. Ma il sospetto è che meno del previsto siano state anche le segnalazioni delle infezioni tra i bambini: pari a poco più del quattro per cento del totale dei casi.

«Dobbiamo fare di più per porre fine a questa malattia», ammonisce Zsuzsanna Jakab, direttore generale per l’Europa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ricordando come fino a ottant’anni fa la tubercolosi fosse la malattia respiratoria più frequente e temuta: mentre oggi risulta scalzata soprattutto dall’asma e dalla Bpco, oltre che dal tumore del polmone.

I NUMERI DELLA TUBERCOLOSI IN ITALIA

Quanto al nostro Paese, dove a essere colpite dalla tubercolosi sono sette persone su centomila (un terzo dei casi che si registrano in Romania), l’attuale situazione epidemiologica è caratterizzata da una bassa incidenza nella popolazione generale, e dalla concentrazione della maggior parte dei casi in alcuni gruppi a rischio e in alcune classi di età.

Dall’analisi degli ultimi dati emerge che la metà dei nuovi casi interessa cittadini italiani. I cittadini stranieri più coinvolti sono quelli che provengono da Paesi ad alta endemia: dall’Africa maghrebina ed equatoriale ai Paesi dell’Est quali Romania e Moldavia. Gli stranieri malati hanno in media un’età media tra i venti e i quarant’anni. Nella maggioranza degli italiani, invece, i casi riportati riguardano ultrasessantenni.

La causa della differenza d’età è semplice: l’emigrato proveniente da Paesi ad alta endemia ha un coefficiente di rischio molto più alto e tende ad ammalarsi prima, anche a causa di una qualità di vita di prassi inferiore. La malattia, di natura batterica, si trasmette in maniera aerogena, ossia per condivisione di spazi aerei con un malato.

«Nonostante i numeri non allarmanti, quello della tubercolosi è un problema strettamente attuale per la natura stessa della malattia, in quanto molto difficile da riconoscere - afferma Giovanni Di Perri, ordinario di malattie infettive all’università di Torino -. I sintomi sono febbre e tosse, spossatezza e perdita di peso. Questi, in effetti, possono essere banalmente scambiati per episodi influenzali o parainfluenzali. La mancanza di una sintomatologia specifica comporta spesso una lunga serie di visite prima di essere scoperta».

UN OCCHIO PARTICOLARE PER LA SALUTE DEI BAMBINI

La battaglia, dunque, è tutt’altro che conclusa. Nel mondo, i nuovi casi di tubercolosi sono stati 9,6 milioni nel 2014 e 10,4 milioni nel 2015, di questi ultimi 1,2 milioni erano bambini. Il 60 per cento dei malati è rappresentato dalla popolazione di sei Paesi (India, Indonesia, Cina, Nigeria, Pakistan e Sud Africa).

Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista «The Lancet Infectious Diseases» ha analizzato la mortalità per tubercolosi in 82436 bambini da 0 a 14 anni in tre diverse epoche: prima dell’introduzione di terapie specifiche (fino al 1946), tra il 1946 e il 1980 quando ancora non si trattavano tutti i bambini, e dopo questa data che ha visto l’introduzione dei farmaci antivirali contro l’Hiv. Nel primo periodo, quello in cui non esistevano farmaci antitubercolari, la mortalità pediatrica era pari a circa il 22 per cento: sotto i cinque anni raggiungeva il 44 per cento rispetto al 15 per cento nei bambini in età compresa tra 5 e 14 anni.

L’analisi ha evidenziato una mortalità particolarmente elevata in caso di mancata diagnosi o di inadeguato trattamento dei piccoli, specialmente se residenti in aree endemiche per tubercolosi e Hiv. «In presenza di altre infezioni come l’Hiv, la mortalità è più elevata. È importante ricordare che il paziente pediatrico con tubercolosi è il cosiddetto evento sentinella che induce i medici a ricercare l’infezione tra coloro che si prendono cura del bambino sentinella - dichiara Laura Lancella, pediatra dell’ospedale Bambino Gesù di Roma -. Quest’ultimo, infatti, non è quasi mai contagioso, è l’adulto che diffonde la malattia. In Europa, rispetto al resto del mondo, si registra una bassa mortalità pediatrica per questa malattia. Questo dato confortante è in relazione all’elevata percentuale dei pazienti pediatrici che ricevono un adeguato trattamento per la malattia e dei bambini sotto i 5 anni sottoposti a terapia preventiva quando entrano in contatto con persone infette».

Twitter @fabioditodaro


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