L’alta montagna è un grande laboratorio a cielo aperto dove si possono testare le reazioni della persona dal punto di vista fisiologico, psicologico, nutrizionale, sportivo e persino onirico.
Noi de La Stampa abbiamo da poco partecipato alla spedizione di trekking estremo «Sherpa» sull’Himalaya indiana (Uttarakand): una settimana di cammino irto di rischiosi imprevisti su un sentiero poco battuto e parzialmente crollato per raggiungere il lago ghiacciato Kendartal a 5000 mt di quota.
Notti a -20° in tenda, cibo frugale, versanti molto ripidi da risalire facendo i conti con l’insidia del mal di montagna, le frane, il ghiaccio e, soprattutto, la carenza di ossigeno.
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L’ADATTAMENTO DEL CORPO UMANO ALL’ALTA QUOTA
«L’ipossia che si verifica in alta montagna – spiega il dottor Gabriele Valli, medico ricercatore specializzato in fisiologia cardio - respiratoria che si è occupato di adattamento umano all’alta quota - è al centro di varie ricerche che studiano come la risposta da carenza di ossigeno induca nella cellula dei fenomeni di adattamento che diventano importanti in clinica medica in numerose patologie come l’insufficienza respiratoria, le infezioni gravi e perfino i tumori.
LA CELLULA REGOLA L’UTILIZZO DELL’OSSIGENO
I meccanismi con cui la cellula regola l’approvvigionamento e l’utilizzo dell’ossigeno possono aprire la strada a terapie innovative, e l’alta quota costituisce un ambiente naturale in cui studiare questi fenomeni. Gli italiani in particolare hanno sempre associato le spedizioni in alta quota a ricerche scientifiche, basti pensare al Laboratorio Internazionale Piramide del Cnr, situato nei pressi del campo base dell’Everest, intitolato al prof. Ardito Desio che offre un’insostituibile opportunità per lo studio dei cambiamenti climatici e ambientali, della medicina e della fisiologia umana in condizioni estreme, della geologia, della geofisica e dei fenomeni sismici».
MAL DI MONTAGNA. CHI NON CE L’HA FATTA NEL PROGETTO «SHERPA»
Nel solco di questa tradizione, l’intento del progetto Sherpa è stato quello di vedere come il corpo si adattava a un cambiamento cosi radicale.
«Durante l’ascensione dai 3100 m ai 5000 – spiega Daniele Manno, organizzatore della spedizione, istruttore di survival e di primo soccorso in ambito remoto - abbiamo raccolto i parametri di tutti i partecipanti, sportivi e survivalisti dai 23 ai 53 anni. Pressione, frequenza cardiaca e respiratoria e soprattutto la saturazione, nel sangue, dell’ossigeno che, a 5000 m, è esattamente la metà di quello al livello del mare.
Dagli 8000 m, la percentuale d’ossigeno si abbassa ancor più, a livelli letali fino a far parlare di «fascia della morte».
Ci siamo adattati facilmente, anche grazie a un paio di giorni di ambientamento a 3100 metri, tuttavia questo non ha risparmiato il mal di montagna a qualcuno, che è dovuto tornare indietro. Tale sindrome produce nausea, vomito, mal di testa e può degenerare nel pericoloso edema polmonare e cerebrale.
E’ un disturbo imprevedibile, che può cogliere sia i più giovani e forti, sia persone già abituate all’alta quota tanto che perfino la nostra guida indiana ne è stata colpita. Una profilassi utile è quella a base di farmaci specifici dall’azione diuretica che riducono la parte «liquida» del sangue per avere più emoglobina per ml di sangue stesso. Più emoglobina corrisponde a più ossigeno trasportato.
PERICOLO DISIDRATAZIONE
Viceversa, occorre stare molto attenti alla disidratazione che, peraltro, presenta sintomatologie simili al mal di montagna. Essa si verifica anche solo respirando a bocca aperta, tanto che un segreto degli sherpa è quello di respirare sempre col naso. Il freddo intenso e l’acqua che gela nella borraccia non rendono piacevole bere, per cui il chai, il tè caldo al latte indiano è stato una vera risorsa».
L’ALIMENTAZIONE IDEALE AL GELO E IN VETTA: I CARBOIDRATI
La cucina dei portatori indiani si è rivelata particolarmente adatta all’alta quota. Spiega il nutrizionista Manuel Salvadori che ha partecipato alla spedizione: «Il nostro metabolismo ad alta quota viene spinto verso una forte necessità di carboidrati, ed è esattamente ciò che gli sherpa ci hanno procurato per tutta la durata del viaggio, con una dieta principalmente a base di biscotti, verdure, cereali come riso, semolino e chapati (focaccine azzime) legumi come il dahl. La loro tradizione, prevalentemente vegetariana per motivi religiosi, in questo caso, incontra la scienza, a dimostrazione di come la cultura di un popolo possa poi derivare direttamente dall’esperienza.
L’IMPORTANZA DELLE SPEZIE
Una nota curiosa è stata data dalla forte speziatura sempre presente che però trova, anche qui, riscontro nella letteratura scientifica: le spezie piccanti infatti generano calore interno per un processo denominato “termogenesi indotta”. Tuttavia, una dieta del genere, così povera di proteine, risulterebbe assolutamente deleteria in una condizione di altitudine normale come durante la nostra vita quotidiana in Italia. Non a caso, la struttura fisica degli indiani è completamente diversa e fortemente adattata a quel tipo di regime alimentare».
A QUELLE ALTEZZE I SOGNI NOTTURNI SEMBRANO REALTA’
Ore e ore di marcia in salita e «scatti» necessari in alcuni passaggi molto pericolosi dove, dal ripido versante, precipitavano in continuazione pietre piccole e grandi. Esperienze-limite che hanno prodotto vari effetti psicologici. Un fenomeno interessante riguarda l’attività onirica in alta quota. Tutti i membri della spedizione hanno riferito di aver vissuto sogni estremamente vividi, intensi e assurdi. Spiega lo psicoterapeuta Simone Bertossi, partecipante allo Sherpa: «Non ci sono ancora ricerche specifiche in merito, ma ho scoperto che è un’esperienza comune in alta montagna. Vi sono ricerche che però mettono in correlazione certi tipi di sogni, come quelli “lucidi” con la respirazione e il ritmo cardiaco, funzioni che a quelle altitudini, come noto, subiscono notevoli modificazioni».
LA PSICHE RAGGIUNGE UN CERTO BENESSERE
La gran parte dei partecipanti, alla fine dell’esperienza, ha anche registrato notevoli benefici a livello di benessere interiore.
Continua il dottor Bertossi: «Per decenni le riflessioni fatte sugli sport estremi sono state imperniate su ciò che di patologico poteva esserci nel voler affrontare simili esperienze. Da qualche tempo si cerca di individuarne gli aspetti positivi, tra questi il fatto che l’assunzione del rischio, la sfida contro la natura e i propri limiti riconduce a un’interazione con l’ambiente “primitiva” e permette il recupero di un certo grado di controllo, non solo verso l’esterno, ma anche nella regolazione delle proprie emozioni. Tutto ciò diviene “esportabile” poi nella vita normale di tutti i giorni facendo assimilare una strategia che aumenta il proprio senso di efficacia».
IL «SURVIVAL» UTILE PER L’EDUCAZIONE DEI PIU’ GIOVANI
Il survival - ovviamente calibrato a seconda dell’età - può essere utile per i ragazzi.
«Questa attività – commenta Daniele Dal Canto, istruttore di sopravvivenza e co-organizzatore della spedizione - ci riporta alla vita non solo dei nostri nonni, ma anche dei nostri antenati più antichi. In questo viaggio lontano da ogni connessione internet, quanto ci è mancata la carne, la comodità di un letto, perfino una sedia. Cose che siamo abituati a dare per scontate.
Per i ragazzi di oggi, spesso lasciati a se stessi o, viceversa, iperprotetti dalle famiglie, si tratta di un’occasione di crescita fondamentale che consente di imparare a relazionarsi con gli altri, a interagire nello spazio, ad adattarsi ai cambiamenti e, quindi, poi ad essere più grati e consapevoli per le comodità di tutti i giorni».
LA NATURA È LA STRADA MAESTRA
Vale la pena di ricordare quanto scriveva Walter Bonatti: «L’essere umano vive in città, mangia senza fame e beve senza sete, si stanca senza che il corpo fatichi, ricorre il proprio tempo senza raggiungerlo mai. E’ un essere imprigionato, una prigione senza confini da cui è quasi impossibile fuggire. Alcuni esseri umani però a volte, hanno bisogno di riprendersi le proprie vite, di ritrovare una strada maestra. Non tutti ci provano, in pochi ci riescono».