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Nella giornata mondiale dedicata al cancro, in programma come ogni anno il 4 febbraio, giunge una «rassicurazione» per gli oltre otto milioni di bambini nati da tecniche di procreazione medicalmente assistita (Pma). Indipendentemente dalla procedura adottata, i bambini venuti alla luce al termine di un ciclo di fecondazione artificiale non convivono con una maggiore probabilità di ammalarsi di cancro rispetto agli stessi nati a seguito di una fecondazione naturale.

È questo il messaggio che arriva da uno studio olandese pubblicato sulla rivista «Human Reproduction»: il primo a osservare fino a 21 anni un gruppo di oltre 47mila persone. Tra loro, bambini, adolescenti e giovani adulti concepiti naturalmente, a seguito di un percorso di Pma o soltanto a seguito di un ciclo di stimolazione ovarica.

Al termine del «follow-up», la frequenza delle diagnosi oncologiche è risultata identica: indipendentemente dal gruppo di appartenenza.

Rassicurazioni per chi è nato dalla Pma

Spiega Flora Van Leeuwen, a capo del dipartimento di epidemiologia dell’Istituto Olandese per la Ricerca sul Cancro, che ha coordinato la ricerca condotta selezionando un ampio gruppo di donne seguite per il trattamento della fertilità nelle 12 cliniche specializzate sparse sul territorio nazionale.

«Per la prima volta è stato effettuato un confronto tra persone nate da donne con un basso tasso di fertilità, che nella maggior parte dei casi ha richiesto il ricorso a una metodica di procreazione medicalmente assistita. La loro difficoltà nel concepimento potrebbe essere un fattore di rischio per l’insorgenza di una malattia oncologica in un figlio o in una figlia».

La ricerca - che ha considerato anche altri fattori potenzialmente in grado di incidere sul risultato finale: come l’età materna, la causa di subfertilità, l’anno di nascita di ogni bambino, il numero di figli avuti - ha evidenziato un lieve aumento delle diagnosi di cancro (leucemia linfoblastica acuta e melanoma) nel gruppo dei nati a seguito di una fecondazione artificiale effettuata con l’iniezione intracitoplasmatica dello spermatozoo (Icsi) o condotta attraverso il congelamento dell’embrione prima del trasferimento in utero. Ma il dato, alla luce del minimo scarto, è considerato dagli esperti non significativo e non permette di collegare l’accaduto alla metodica di concepimento.

Pma e salute delle donne

Il risultato finale, dunque, è chiaro. Nei ventuno anni successivi alla nascita, una persona concepita attraverso una tecnica di Pma non corre un rischio più alto (rispetto al resto della popolazione) di ammalarsi di cancro. Gli stessi ricercatori avvertono che «occorrerà comunque portare avanti la ricerca, in modo da ottenere un risultato anche a più lungo termine».

Il messaggio rassicurante fa il paio con quello giunto pochi mesi fa, in occasione del quarantesimo compleanno di Louise Brown, attraverso le colonne del «British Medical Journal» . La Pma, con le sue diverse metodologie, ha infatti escluso che le donne che vi si sottopongono convivano poi con una maggiore probabilità di ammalarsi di uno dei tre tumori: al seno, all’utero e all’ovaio. Un’ipotesi emersa negli anni in ragione della stimolazione ormonale che rappresenta la prima tappa di qualsiasi approccio di fecondazione assistita.

Per arrivare a questa conclusione, gli autori della ricerca hanno preso in esame i dati relativi alle oltre 255mila donne sottopostesi a una procedura di procreazione medicalmente assistita in Gran Bretagna tra il 1991 e il 2010. Incrociando le statistiche di questo registro con i numeri delle nuove diagnosi oncologiche registrate durante un periodo di osservazione media durato otto anni, non è stato osservato un rischio più alto di ammalarsi di tumore del corpo dell’utero o di tumore al seno invasivo.

Un leggero incremento - proporzionale al numero di cicli di stimolazione ricevuti - è stato invece osservato per i carcinomi della mammella in situ: una delle forme meno aggressive di tumore della mammella, che nella maggior parte dei casi non ha la caratteristica di espandersi nella ghiandola e in altri tessuti. La probabilità di malattia è risultata più alta anche per il carcinoma ovarico: sia per le forme invasive sia per quelle in situ. Con una specifica, però: le donne accompagnate da questo rischio soffrivano infatti di endometriosi o avevano affrontato un basso numero di gravidanze, entrambi considerati fattori maggiormente predisponenti alla malattia.

Twitter @fabioditodaro