La buona notizia è che l’incidenza della malattia di Alzheimer, la più comune forma di demenza, è in declino. Grazie alla maggior attenzione ai fattori di rischio vascolare sempre meno persone si ammalano in ogni fascia d’età. Tuttavia, l’invecchiamento progressivo della popolazione causa quella «marea montante», come l’ha definita l’OMS, di demenze in tutto il mondo, dove i malati sono 44 milioni e il loro numero è destinato a triplicare nei prossimi anni, per arrivare entro il 2050 a 135 milioni. Nel nostro paese, i casi di demenza sono 1 milione, di cui 600.000 sono Alzheimer. Si tratta di una sfida che richiede non solo uno sforzo interdisciplinare, ma anche un approccio coordinato a livello europeo e internazionale.

Genetisti, biologi molecolari, nanotecnologi, neurologi e scienziati cognitivi, massimi esperti nella lotta alle demenze, si sono riuniti a Milano-Bicocca in occasione del secondo Simposio internazionale di NeuroMi 2016, «Prediction and prevention of dementia: a new hope».

Prevedere e prevenire sono le parole chiave perché, anche alla luce dei nuovi trattamenti allo studio che potrebbero arrestare il progredire della malattia, diventa fondamentale anticipare la diagnosi prima che i danni siano irreversibili. E così la ricerca punta oggi all’identificazione di biomarcatori genetici, biochimici e neuropsicologici capaci di indicare i pazienti a rischio di demenza molti anni prima della comparsa dei sintomi clinici.

Gli esami neuroradiologici e del liquor cerebro-spinale ci mostrano l’eventuale accumulo della proteina neurotossica beta amiloide (A beta) che va a formare le ormai note placche, e della proteina tau fosforilata, responsabile del formarsi degli ammassi fibrillari nel cervello. I processi neurodegenerativi, innescati da queste proteine, sembrano avere anche un ruolo attivo nella patogenesi dell’Alzheimer.

I nuovi promettenti farmaci contro l’amiloide

«Oggi, grazie alla PET con tracciante per amiloide, possiamo osservare l’accumulo progressivo di A beta nel cervello in modo meno invasivo rispetto all’analisi del liquor» ha spiegato il professor Carlo Ferrarese direttore Scientifico di NeuroMi, il Centro di Neuroscienze di Milano. In caso di PET positiva, non è ancora possibile sapere se e quando la malattia si manifesterà. Ora, però, due possibili strade terapeutiche si stanno aprendo proprio per combattere la deposizione della proteina, «nuovi farmaci in grado di bloccarne la produzione – inibitori della secretasi - oppure anticorpi monoclonali in grado di rimuoverla», spiega Ferrarese, che è anche direttore della Clinica neurologica del San Gerardo di Monza, uno dei pochi centri in Italia dove sono in corso gli studi clinici su questi farmaci considerati la nuova frontiera nella terapia di Alzheimer.

«Una minima parte di anticorpi raggiungono il cervello dove rimuovono la proteina – spiega il professore - il restante rimane a livello plasmatico dove, legando la Aβ, crea un gradiente attraverso la barriera ematoencefalica che la richiama in circolo dal cervello. I primi risultati sono attesi in un paio d’anni». La comunità scientifica, ben consapevole del lento trasferimento alla clinica dei risultati della ricerca di base, spera che l’immunoterapia diretta contro Aβ possa colmare finalmente il gap esistente tra le promesse delle neuroscienze traslazionali e gli scarsi risultati fin qui ottenuti.

Il ruolo della neuroinfiammazione

L’Alzheimer è una malattia molto complessa e agire contro l’amiloide potrebbe non bastare. Un altro sorvegliato speciale è lo stato di infiammazione cerebrale cronica: la risposta immunitaria dell’organismo all’accumulo di amiloide può, come in un circolo vizioso, alimentare la neurodegenerazione e promuovere la formazione di ammassi neurofibrillari.

Nuovi test diagnostici neuropsicologici

«Sappiamo che specifiche alterazioni della funzione cognitiva, chiamate disturbo cognitivo lieve (MCI), spesso precedono di molti anni la demenza vera e propria» spiega Ferrarese. Predire la lunga marcia della malattia sarà più facile anche grazie a nuovi test diagnostici neuropsicologici, presentati a NeuroMi, che permettono di delineare con precisione il profilo cognitivo specifico del paziente con Alzheimer.

Dopo anni di intense ricerche, da Milano arriva un messaggio di concreta speranza per questa patologia neurodegenerativa che tanto spaventa tutte le organizzazioni sanitarie mondiali.


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