Secondo un sondaggio del 2018 condotto dal sindacato Anaao Assomed, il 66% dei medici dichiara di aver subito un’aggressione da parte dei pazienti. Si va da quelle verbali fino ai tentati omicidi e perfino agli stupri per il personale femminile. Il fenomeno è in aumento negli ultimi anni (riguarda anche gli infermieri) e si parla di equiparare le aggressioni contro gli operatori sanitari a quelle contro un pubblico ufficiale, oppure di inserire delle aggravanti di pena.

A proposito di questi odiosi crimini - antichi forse quasi quanto la professione medica - un ritratto appeso nel Museo dell’Arte Sanitaria di Roma ricorda la commovente vicenda del prof. Antonio Parrozzani (Isola del Gran Sasso 1870 – Tivoli 1930) delle sue conquiste chirurgiche dimenticate e della sua tragica fine.

Aveva un viso forte, quasi da questore o da prefetto, con i baffi ben tagliati come andavano negli anni ’20, ma lo sguardo bonario: negli ultimissimi anni dell’800 Parrozzani era un apprezzato aiuto-chirurgo con funzioni da primario presso l’ospedale romano di S. Maria della Consolazione, immerso nei Fori. Oggi, quel nosocomio non esiste più, coinvolto dalle rivoluzioni urbanistiche dell’epoca e il rione Campitelli in cui si trovava, lontano dal divenire una zona chic percorsa da torme di turisti, era all’epoca una zona abbastanza irrequieta della Capitale.

Il facchino pugnalato

Tanto che nella notte fra il 18 il 19 aprile 1897 fu portato all’ospedale un certo Adolfo Barboni, di 32 anni, di mestiere facchino. Verso le ore 23.00 era stato aggredito e colpito con tre pugnalate all’uscita di un’osteria; subito aveva cercato di inseguire il suo aggressore per almeno una trentina di passi, ma poi si era accasciato a terra boccheggiante. Alle 5 di mattina era stato condotto alla Consolazione in un bagno di sangue, pallidissimo, con battiti cardiaci appena percepibili, respiro affrettato. La diagnosi di Parrozzani fu immediata: emorragia interna per ferita al cuore.

Antonio Parrozzani

«Ritenni urgente l’intervento chirurgico – annotava il chirurgo nelle sue memorie – quantunque i colleghi fossero di opinione che il paziente non vivesse sino alla fine dell’operazione e perciò mi sconsigliassero dall’operare».

L’operazione

Il ferito fu messo sul tavolo operatorio, trattenuto da due robusti infermieri e senza anestesia, Parrozzani cominciò col praticargli un’incisione muscolo-cutanea; recise, poi, col «frangicoste» (una sorta di cesoia ricurva) quattro costole fino a creare una sorta di «sportello» mantenuto aperto dal suo assistente dott. Galli. Vide che il ventricolo sinistro del cuore, da cui proveniva un fiotto di sangue continuo, era stato perforato dalla lama; vi inserì, allora, il mignolo e cominciò a suturare con un filo di seta e un grande ago ricurvo.

Dopo un’ora e mezza il chirurgo aveva portato a termine un intervento straordinario che sarebbe stato il primo al mondo coronato dal successo. Il paziente, infatti, in capo a poco più di due mesi riprese addirittura la sua attività di facchino.

Tre immagini dell’Ospedale della Consolazione

La conquista chirurgica

Spiega il prof. Giorgio Di Mattia, presidente onorario della Società Italiana di Chirurgia e autore di uno studio sul medico abruzzese: «A quei tempi non c’era la possibilità di deviare temporaneamente il flusso venoso e arterioso del cuore. Parrozzani fu il primo al mondo ad eseguire una sutura sul ventricolo sinistro. Già un suo collega, il Farina, era intervenuto con successo sul cuore, ma sul ventricolo destro che per la minor pressione del sangue è molto più facile da suturare».

Parrozzani comunicò all’Accademia Lancisiana il suo intervento e venne unanimemente apprezzato, dai celebri medici romani dell’epoca: Baccelli, Bastianelli, Postempsky, Marchiafava, Luciani, Bignami, Mingazzini. Tuttavia, commise l’errore di pubblicare la sua relazione solo in lingua italiana. Ecco perché in sede internazionale il suo primato venne del tutto dimenticato. Se l’avesse pubblicata nella lingua scientifica allora dominante, il tedesco, o anche in inglese, dichiarandone l’opportunità, l’efficacia, la fattibilità (anche economica) dell’operazione certo ancor oggi il suo nome verrebbe ricordato con onore paritario agli altri da tutta la comunità scientifica.

L’omicidio

Ne serbano memoria solo l’Accademia di Arte Sanitaria di Roma e l’ospedale di Tivoli (Asl Roma 5) che Parrozzani, divenuto primario nel 1903, diresse in modo egregio facendolo passare da una semplice infermeria fino a un moderno istituto con un’organizzazione chirurgica di prim’ordine. Questo almeno fino alla sera del 2 novembre del 1930, quando, uscito dall’ospedale dopo aver operato una giovane di appendicite, il dottore fu avvicinato da un giovane basso di statura, biondiccio, col cappello calato sugli occhi, che gli sparò a bruciapelo tre colpi di rivoltella. L’aggressore infierì con altri tre spari sul suo corpo riverso a terra prima di dileguarsi per la Via Empolitana.

Parrozzani, «con infiniti stenti» riuscì a rientrare nell’ospedale dove pronunciò le ultime parole «Mi hanno ammazzato» prima di spirare, all’età di appena 60 anni. Furono subito lanciati i Carabinieri e i militi della MVSN alla ricerca dell’assassino.

La mente sconvolta dell’assassino

I sospetti caddero inizialmente sul nipote del professore (chissà perché) ma questi aveva un alibi di ferro. Undici giorni dopo fu arrestato tale Francesco Mancini, un ex vigile urbano di 28 anni che dieci anni prima era stato operato di ernia proprio dal Parrozzani. Continua il prof. Di Matteo: « Nei suoi confronti il Mancini aveva maturato da tempo un odio profondo perché, come risulta dal processo, era convinto che il chirurgo avesse voluto fare sulla sua pelle “un esperimento mal riuscito” per giunta “al cospetto di medici, infermieri, studenti e tre frati” (sic!). L’operazione gli avrebbe provocato una “semimpotenza” sessuale dovuta alla “recisione dei nervetti dell’erezione” togliendogli, come letteralmente accusò, “la primavera della vita” e “la possibilità di possedere una vergine”. In realtà, l’operazione era perfettamente riuscita, ma qualcosa nella mente del giovane si era da allora spezzato. La perizia gli diagnosticò infatti un’infermità mentale a decorso ingravescente “a tipo paranoico della specie degli ipocondriaci vendicativi” da cui il suo internamento nell’Ospedale Psichiatrico di Roma».

La corte d’Assise comminò al Mancini l’ergastolo, sentenza riformata in seguito a Viterbo per la concessione di attenuanti generiche. Il processo diventò celebre non solo per la personalità del Parrozzani e la tipologia dell’accusa ma anche perché fu l’occasione per una «possente e fascinosa arringa» del celebre avvocato e criminologo Bruno Cassinelli.

Ci si augura che la figura di questo grande chirurgo possa essere da oggi ricordata non solo per i suoi meriti scientifici, ma anche per l’attualità della sua triste fine, come figura-simbolo, all’interno dei dibattiti per la sicurezza del personale sanitario.